venerdì 21 gennaio 2011

Gornja Bistra: capodanno nel giardino delle rose blu


“Perché siamo qui, perché sono qui?”, ci siamo chiesti tre giorni dopo essere arrivati a Gornja Bistra. Per prima cosa ci sono balzati alla mente gli occhi di P. Guglielmo quando quest’estate ci aveva raccontato dell’esperienza vissuta lì, occhi che brillavano. E le emozioni, le immagini, le sensazioni trasmesse da Anna, Francesca, Josef e dal gruppo del ’92 la sera della loro festa dei dicottenni. Non ricordavamo racconti particolari o le cose dette: solo l’emozione che ci avevano trasmesso. La sensazione che in quell’esperienza si coagulasse un abisso di amore. E quell’abisso ci ha attirati lì a Gonrnja Bistra, in Croazia, a pochi chilometri da Zagabria, presso un Ospedale pediatrico per malattie croniche gravissime.

Quando arriviamo il bel tetto a spioventi del castello-ospedale con le torrette a punta è oramai immerso nel buio del parco che lo circonda. Sono le cinque, c’è tempo per dare la cena ai bimbi. Per noi è la prima esperienza e per fortuna siamo accompagnati da Anna, Francesca e Guglielmo che ci guidano, attenti. Ci hanno raccontato, ci hanno spiegato, ci hanno preparato, ma quando varchi la soglia è un’altra cosa. L’odore al pianterreno ci colpisce come un pugno allo stomaco. Per entrare nello spogliatoio dei volontari a mettere i camici attraversiamo subito alcune stanze, con quei corpi deformi, straziati, legati a letto. I primi dieci minuti lì dentro sono sconvolgenti: sembra di essere precipitati in un mondo che non può esistere, in un inferno. Poi il “primo pasto”, aiutiamo le infermiere a dare la cena: Zvonko fa subito capire che le barbabietole non le vuole, Dejan gioca e ti prende in giro, Maurizio imbocca Dino, un bimbo down di un anno e mezzo. Qui quando hai voglia di rilassati vai un po’ con lui, che ti sembra fortunatissimo. Il giorno dopo conosciamo anche gli altri (gli ospiti oggi sono 106). I ragazzi più grandi: Ivan avrà quasi 30 anni non parla, non cammina, ha gli arti come atrofizzati, eppure ti stringe la mano con una forza incredibile, con una mano esprime tutta la sua vitalità, ma non sorride. Velimir invece si alza, riesce a camminare un po’ se lo aiuti, Velimir con lo sguardo sempre serio, che il secondo giorno però sorride a Maurizio appena lo vede; Lubo, cieco e sempre solo sdraiato nel letto accompagna la mano che lo imbocca, mangia velocemente. Gli odori delle mani, del cibo, delle stanze ti si appiccicano addosso. E poi le infermiere: ci sono quelle che ballano, sorridono e quelle che ingozzano. Quelle che parlano con i bambini, bambini con tante mamme. E nessuna. Ci sono genitori che vengono a trovare i bimbi per la maggior parte abbandonati: sono pochissimi, ne vediamo tre in una settimana. Ma ci sono anche famiglie che adottano alcuni bimbi: salutiamo Tayson che esce sulle spalle di un signore croato insieme alla moglie, ci dicono che probabilmente ha trovato una nuova famiglia. Velimir sabato e domenica non c’era. Sarà stato a casa? Karlo, 10 anni?, non si muove, non parla, ma se gli accarezzi la pancia ride di gusto. La mattina, dopo la colazione, prendiamo i bimbi e i ragazzi che possono muoversi dal letto, in carrozzina, e li portiamo un po’ nella sala giochi allestita dai volontari al pianterreno, e così al pomeriggio. Guglielmo, giocoliere con le palline, incanta Dejan; Francesca sa bene che a Yliana piace la chitarra e la aiuta a raggiungerla e strimpellare; Maurizio coccola Sladana, con le mani sulla sua testa riesce a calmarla un po’; Anna e Zvonko fanno una torre con i lego e anche lui sorride stringendo il suo bruco colorato; Marja si diverte come una matta insieme ad un volontario croato che spinge la sua carrozzina a suon di musica disco per i corridoi e Yelena canta oramai in perfetto italiano Fra Martino campanaro!

Quando usciamo la sera, dopo le sei, è un piacere respirare a pieni polmoni l’aria fredda, ma non puoi fare a meno di guardare quelle finestre con le luci accese e pensare a tutti loro.

“Cosa portiamo a casa da Gornja?”, ci siamo chiesti al rientro.

Portiamo a casa un’esperienza unica, in cui corpo e spirito, mani e cuore, terra e cielo si intrecciano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità. Le domande sul senso della vita, sulla sofferenza e il dolore, sull’amore, ti entrano dentro attraverso il naso e la puzza insopportabile di alcuni momenti, attraverso gli occhi posati sul letti, sui volti, sui corpi; attraverso le mani quando tocchi la mano di Ivan che ti stringe, quando cerchi di pulire il visino di Sladana, attraverso i piedi mentre percorri il corridoio per l’ennesima volta al suono di “Hajde Hajde” (Su! Su!) con Marja o Yelena, attraverso le orecchie, gli urli, e i pianti.

Ma tutto lentamente si placa, come se non ci fosse bisogno, in fondo, di nessuna domanda né di nessuna risposta. Come se tutto quello che serve e che conta passasse di nuovo da quelle mani, da quegli occhi, dagli stessi corpi. Un cucchiaio che imbocca e una mano che lo guida; il solletico sulla pancia e una bocca e occhi che ridono; una ciocca di capelli lisci o ricci da toccare basta a Nina per essere felice; due moncherini al posto delle mani bastano per essere autonoma in carrozzina e nella vita a Margareta, basta lei a parlare per accedere gli occhi di Josip di vita, Josip che avrà 30 anni, sempre in corridoio solo, corpo schiacciato a letto, immobile, sondino nel naso, ma mente lucida che capisce tutto.

Ogni gesto è preghiera. Supplica, amore e dolore insieme.

Ovunque ti giri c’è una croce. E la possibilità assurda e meravigliosa che sia seme di resurrezione.

Portiamo a casa il desiderio di ringraziare Dio per la nostra vita e quella dei nostri cari.

Portiamo a casa la gratitudine per la fortuna di aver condiviso con altri amici un’esperienza così.

Portiamo a casa un’anima in pace, svuotata da stress e problemi, tutti ridimensionati drasticamente.

Portiamo a casa una sensazione di benessere. “Perché ci sentiamo così bene?”, ci siamo chiesti. Perché abbiamo incontrato Angeli, messaggeri d’Amore. Quale messaggio? Quale Amore? Che la vita vale di essere vissuta. Che nulla ti può impedire un sorriso gratuito. Che amare è tutto. Davvero. Un Amore che è tenerezza, contatto fisico, superamento dei limiti e delle apparenze, della prima sensazione di rigetto. Che amare gli ultimi, i numeri zero, è forse più facile, ma sicuramente più forte. Che l’amore è davvero ciò di cui si ha più bisogno. Di amore quotidiano, di amore esplicito, diretto, senza tanti fronzoli o ghirigori. Di amore e basta.

La sera del rientro Guglielmo ci lascia il foglietto della celebrazione del 31. A Gornja non l’abbiamo fatta. La sera dopo lo apriamo e leggiamo:

«Gli uomini si domandavano angosciati: perché il dolore? Perché l’umiliazione? Quale il senso della sofferenza degli ultimi della terra? Gli uomini rivolgevano le loro domande a Dio. Ma Dio rimaneva silenzioso. Adesso, nel Natale, Dio parla. Dio non risponde al perché della sofferenza. Egli soffre insieme a noi. Dio non risponde al perché del dolore. Egli si è fatto uomo dei dolori. Dio non risponde al perché dell’umiliazione. Egli si umilia. Non siamo più soli nella nostra solitudine immensa. Egli è con noi. Non siamo più solitari, ma solidali. Tacciono gli argomenti della ragione. Parla il racconto del cuore. Viene narrata la storia di un Dio che s’è fatto bambino, che invece di interrogare agisce, che invece di rispondere vive una risposta» (L. Boff, Incarnazione)

Stare con i bambini di Gornja Bistra è esattamente questo. Toccare Dio, imboccarlo, accarezzarlo, accudirlo, amarlo. E lasciarsi amare immensamente nel potergli essere così vicini, figli e fratelli.

Dio è dappertutto a Gornja. Se c’è è dappertutto, in ogni lettino e in ogni gesto d’amore.

Diana e Maurizio

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